Il ciclo di incontri avente come tema l’etnopsichiatria ha l’ambizione di offrire elementi introduttivi a un sapere complesso quanto controverso, la cui conoscenza, per i clinici (psichiatri, psicoterapeuti, psicologi), è andata crescendo progressivamente fino a imporsi come uno strumento imprescindibile nell’incontro con espressioni e idiomi della sofferenza e del disturbo psichiatrico con i quali si ha scarsa consuetudine.
Praticare l’etnopsichiatria in modo congruo e rigoroso richiede, però, oggi un triplice passo epistemologico: 1) acquisire piena consapevolezza delle radici storiche di un sapere nato nel contesto delle colonie; 2) esplorarne le rigogliose connessioni con altre discipline (la psicoanalisi, l’etnologia, l’antropologia simbolica, la linguistica, la storia delle religioni) per coglierne tutta la densità teorica; 3) pensare il suo sviluppo e la sua applicazione non solo in riferimento al ruolo della differenza culturale nell'interpretazione e nella cura dei disturbi psichici, ma anche per interrogare il rapporto costitutivo fra ordine sociale, malattia mentale e saperi della cura.
Questo ultimo aspetto ha una evidente ricaduta: “etnopsichiatria” non è solo “la psichiatria degli altri” ma la stessa psichiatria occidentale, le cui categorie diagnostiche, i cui strumenti terapeutici
e i cui criteri di efficacia sono anch’essi – e non potrebbero non esserlo – culturali, ossia coerenti con un particolare orizzonte sociale e in dialogo con le inquietudini di un tempo e di una società
particolari (non esiste dunque una psichiatria e una etnopsichiatria, dal momento che ogni psichiatria è sempre un’etnopsichiatria).
All’interno di questa prospettiva, dopo aver esplorato i concetti fondamentali e i pionieri di questo sapere, fra i quali spicca in Italia il nome di Ernesto de Martino, il corso indaga alcune delle principali scuole ed esperienze (quella di Fann-Dakar, ad esempio) nonché altri modelli di cura della malattia mentale (ciò che viene spesso definito nel suo insieme come il campo delle “medicine tradizionali”), per approdare poi all’etnopsichiatria della migrazione come al territorio che più ha consentito di misurare da un lato i limiti della psichiatria occidentale, dall’altro l’urgenza di immaginare una clinica in grado di confrontarsi con altre eziologie e altre semantiche del male.
Il corso prende in considerazione, nell’ultima parte, alcune recenti categorie diagnostiche (PTSD, sindrome della rassegnazione, solastalgia, ecoansia, ecc.) per analizzarne in chiave etnopsichiatrica i presupposti ideologici e i legami con le incertezze derivanti dalle politiche della cittadinanza o dalle minacce della crisi ambientale e climatica.